Preadolescenza, castelli e tesori nascosti.

Portare un preadolescente a visitare antiche vestigia di castelli sotto il sole cocente dell’estate potrà costarvi una sequela significativa di lamentele, ma correrete anche il rischio di risvegliare il bambino che sopravvive in lui e in voi, se di mezzo c’è anche un tesoro!
Siamo in Istria, fra le città di Rovigno (Rovinj) e Orsera (Vrsar), a ridosso del canale di Lemme: imboccata la strada che conduce a Canfanara (Kanfanar), si potrà trovare (abbastanza) facilmente l’antico abitato medievale di Duecastelli (Dvigrad). Il nome del luogo fa riferimento all’esistenza originaria di due parti distinte della città, Moncastello (la parte che ha resistito fino a oggi) e Castello Parentino (della quale rimane solo un piccolo altipiano), poi unificatesi.
L’area fu abitata già in epoca preistorica, le fonti scritte successive ci raccontano dell’avvicendarsi, al comando della cittadina, di Aquileia, poi dei conti di Gorizia, infine di Venezia. Il declino di Duecastelli cominciò con l’epidemia di peste scoppiata alla fine del XV secolo e proseguì con la guerra degli Uscocchi: nel 1630 la città risulta abitata solo da poche povere famiglie povere, che ben presto abbandonarono l’abitato, da allora deserto.
La città medievale è cinta da due anelli di mura, all’interno delle quali si sono conservati (incredibilmente bene!) più di duecento edifici, fra i quali, al centro, l’imponente chiesa di Santa Sofia.
Riguardo alla stupefacente sensazione che le case, le strade, i vani, le porte, le diverse parti della chiesa, persino i forni siano intatti e uguali a se stessi da secoli, c’è da sottolineare la particolarità della fine di questo luogo: non distrutto, non bruciato, come molti all’epoca, ma abbandonato al tempo, semplicemente.
Mentre citavo Schliemann e i sepolcrali, colta dall’estasi di chi passeggia in mezzo a ciò che resta, il preadolescente lamentava nell’ordine: caldo, ragni, dolore alla caviglia, dolore alla testa, sete, sudorazione, problematiche esistenziali complesse. Ma la questione del tesoro l’ha poi rinvigorito. Perché pare che a Duecastelli fosse giunto nientepopodimeno che il pirata Henry Morgan, personaggio storico a cui Salgari si ispirò per scrivere il Corsaro Nero: britannico di origine, combatteva contro gli spagnoli, appoggiato dal governatore della Giamaica; la sua impresa più straordinaria fu la conquista di Panama, che però saccheggiò in violazione dei trattati fra Spagna e Inghilterra. Scatenò le ire degli inglesi, che presero a inseguirlo; la leggenda vuole che durante questa fuga venisse spinto nell’Adriatico, dove scelse il Canale di Lemme come rifugio sicuro per sé e per il suo tesoro, sepolto proprio a Duecastelli. Il passaggio del pirata sarebbe testimoniato dall’esistenza di un paesino chiamato proprio M(o)rgani, che si trova a pochi minuti d’auto dalla strada che prosegue oltre le rovine di Dvigrad. Vale veramente la pensa arrivare a Mrgani: i pozzi e alcune pietre testimoniano la reale antichità dell’abitato, valorizzato dagli abitanti, che ne hanno avuto cura; qua è là, qualche accenno alla leggenda, ma senza esagerazioni turistiche. Abbiamo messo gli occhi su una Konoba al centro del paese, aperta purtroppo solo alla sera: bisognerà tornare a testarla!
Tornando al tesoro, pare che nei secoli Duecastelli sia stata meta di cercatori speranzosi, ma niente, il bottino del pirata Morgan è ancora là. Per quanto un indizio sia in mano nostra, ormai: c’è un punto nel castello in cui le pietre sono distribuite in modo da far pensare a un vano, nel grosso muro, peraltro indicato da un simbolo misterioso…
Storia e leggenda mettono fame: a pochi chilometri si trova l’agriturismo Mofardin, eccezionale in tutti i sensi (enogastronomico, estetico, economico), di cui abbiamo già parlato: https://itinerariegustianordest.blogspot.com/2020/09/stressa-unamica-mi-ha-detto-che-questo.html








Buona caccia al tesoro!

Inquinamento turistico, ricordi, magie di Basovizza.



“Sbarcarono per visitare la prima città, nel tempo di sei ore. Li guidava una donna corpulenta di mezza età, con indosso un tailleur bordeaux: agitava la sua bandierina come fosse uno stendardo e li conduceva a penetrare la folla di turisti, come banchi di pesci che s’incontrano e s’incrociano. Ruote di valigie sull’asfalto pedonale e odore di McDonald’s si moltiplicavano sempre identici in ogni strada che li conduceva alla meta obbligata: la cattedrale, il parco, la via degli acquisti, la lunga fila per accedere al museo, con tutte le guide in tailleur bordeaux a duellare alla conquista dello spazio fra i loro protetti e la biglietteria. Cartelli multilingue consigliavano di non spogliarsi nei luoghi di culto, non sputare a terra, ricordarsi della mancia. La sposa seguiva la guida come fosse il comandante della fanteria, e la visita una guerra sacra. La distribuzione dei panini incartati sulla nave entusiasmò lo sposo, come accade per i bambini in gita con la scuola. Acquistarono stampe e soprammobili Swarovski per gli arredi della loro nuova vita. Prima di risalire sulla nave chiesero alla guida di scattare loro una fotografia con la città sullo sfondo, consapevoli che mai ci sarebbero tornati; si baciarono allo scatto e senza rimpianti osservarono poi la costa allontanarsi e scomparire, coi polpacci gonfi e una gran voglia di mojito.”

Ho scritto queste righe dopo aver portato per la prima volta Valerio a Venezia, l’anno scorso, prima della pandemia. Nello stesso periodo avevo letto sulla rivista Internazionale un interessante articolo sul fenomeno dell’inquinamento turistico: di come, in sintesi, città come Roma, Parigi, Madrid, Venezia, Tokyo venissero snaturate dall’assalto di un turismo senza controllo, le vie invase, le attività commerciali modificate, le abitazioni private trasformate in bed and breakfast, il rumore incessante, i ragazzi ubriachi a sciami, ogni notte, a festeggiare spesso il loro primo viaggio fuori casa. L’articolo sottolineava come molti abitanti di queste famose mete turistiche fossero (scrivo al passato, perché ora sembrano tempi lontani) letteralmente esasperati da questa condizione, per quanto conveniente dal punto di vista economico. 
Nonostante le dinamiche e gli aspetti sociali e culturali coinvolti siano profondamente diversi, la questione dell’inquinamento turistico mi è tornata in mente in seguito ai segnali di malcontento manifestato da alcune persone rispetto alla frequentazione di alcune zone dell’altipiano carsico da parte di molti sportivi e passeggiatori della domenica. Di un certo senso di assembramento (pre-covid!) qualche volta ho risentito anch’io, e ancor più Davide, ma la mia considerazione è sempre stata che sia meraviglioso che un sacco di gente invece di passare la domenica al bar o sul divano davanti alla televisione esca per camminare, pedalare, correre nel verde, sotto il cielo, al sole. Comprendo d’altra parte gli abitanti: fossi in loro, mi sentirei profondamente a disagio, quando pochi diventano una moltitudine. 
Queste considerazioni non vogliono giungere a una conclusione, ma sottolineare una questione che sarebbe bello superare col buonsenso e la comprensione reciproca prima che anche sulle attività domenicali si scatenino le polemiche feroci e i conflitti senza mediazione che caratterizzano quest’epoca piuttosto barbara. 
Tutta questa lunghissima e illeggibile premessa per parlare di uno dei paesi dell’altipiano carsico a cui sono più affezionata: Basovizza. Là ho fatto le mie prime passeggiate solitarie, che hanno segnato una svolta nel mio modo di reinterpretare la mia vita a quarant’anni, portandomi prima ad interessarmi alla fotografia e poi alla scrittura. 
Parcheggiando la macchina poco dopo lo stagno del paese, appunto lontano dal punto di partenza della maggior parte degli sportivi, ha inizio un labirinto di sentieri che sembra illustrato in un libro di fiabe. Là Valerio ha conosciuto il suo primo bosco, dove cercava i segnali dei sette nani sui tronchi degli alberi (… altro non erano che le indicazioni dei sentieri… forse…), là ho pensato le prime righe dei primi racconti. Nonostante ora prediliga zone più selvagge per le mie camminate solitarie, qualche volta ci torno, soprattutto per una bella corsa, d’estate, quando quel boschetto pare essere l’unico luogo fresco rimasto al mondo.
In tanta magia anche il ristoro è speciale. Praticamente davanti al laghetto si trova l’Azienda Agricola Zagar, luogo ideale per uno spuntino con salumi e formaggi, ma anche per un pasto più sostanzioso, con gnocchi, carni e contorni della tradizione locale e soprattutto frutto del lavoro della fattoria di famiglia: con buona pace dei vegani, coi quali mi scuso fin d’ora, ogni anno io e Davide facciamo una battuta che pare cinica, ma serve a sdrammatizzare l’evidenza di come tutto il pollame che ruzzola in vista all’apertura (il locale apre solo in determinati periodi dell’anno) poi man mano diminuisca. Quando Valerio era piccolo portava il pane alle galline, poi si andava a vedere le mucche.
L’atmosfera è di tale pace e il cibo così buono (ed economico!) che Davide ha festeggiato là i suoi cinquant’anni. È stata una bella festa.  
Il ricordo più bello è di quando Valerio ha mosso i suoi primi passi, proprio sul prato antistante, prima appoggiandosi alla panca di legno, poi libero. Rincorreva la signorina che ci aveva portato il formaggio. Permane il dubbio: era (già?) interessato alla signorina o voleva il formaggio?
Nella foto l'evento viene celebrato solennemente.


La nostalgia del mare


 – Gerda! Guarda cosa ho trovato!

La bambina corre veloce, il corpo magro illuminato dal sole. I capelli biondi e spettinati sono pieni di mare. Lo scoglio è caldo, sotto i piedi scalzi. Con un salto atterra sopra i sassi piccoli e rotondi della spiaggia e raggiunge Kay. Lui solleva il tesoro che ha trovato per lei, esultante. 

– Ha un buco: vedi? 

I due bambini si accucciano vicini e osservano il sassolino, poi ci guardano attraverso, a turno.

– Ci possiamo fare una collana! – esclama Kay elettrizzato. I suoi occhi si fanno seri, all’improvviso. Corre dal padre e bisbiglia al suo orecchio. Così quello si alza, setaccia la spiaggia fino a trovare un filo da pesca, lo porge al bambino, che ci infila il sasso, azzarda un nodo e lo porta alla sua amica. Lei sorride, di un sorriso a cui manca un dente davanti e si infila quel gioiello al collo. Senza troppe cerimonie, i due bambini ritornano allo scoglio e col retino danno la caccia ai granchi.

La spiaggia è deserta, attorno si solleva appena il primo canto delle cicale. È quasi giugno. Dietro la spiaggia sassosa odorano i mirti, e le ginestre stanno già sfiorendo.

(La Regina delle Nevi. Fantafiabe. Delos Digital, 2018)



Non saprei descrivere con parole migliori la spiaggia di Polje. Siamo nel Parco Naturale Kamenjak, in Croazia, a 10 km da Pola… anzi, vorremmo tanto esserci, a ben specificare il sentimento che mi ha mossa a scrivere queste righe. Una profonda nostalgia di luoghi, tempi e stati d’animo che in questo momento storico così difficile sembrano enormemente lontani. Eppure, il pensiero è dolce, perché contiene il desiderio del ritorno, e la speranza di ritrovare i nostri piccoli paradisi. Il Parco Naturale di Kamenyak è una costellazione di ricordi e posti veri, belli da commuoversi, dove io e mio marito Davide approdiamo ogni anno, senza riuscire a farne a meno, fin dalla nostra prima vacanza assieme, poi con Valerio, che lì è cresciuto come il bambino del racconto (che naturalmente è proprio lui, mentre gioca con l’amica che da sempre occupa assieme a nostro figlio gli scogli più ambiti della spiaggia).

La baia di Polje è deserta, al mattino: tutta la spiaggia per noi, a cercare sassi scolpiti dal mare e conchiglie, a guardare riposare in silenzio le barche del porticciolo poco distante. Mentre Valerio legge un giornalino o sfida l’acqua mai calda della punta dell’Istria, io e Davide a turno corriamo, passeggiamo, pedaliamo, fotografiamo, percorrendo l’intrico di sentieri sterrati che conducono a decine di spiagge, sassose o rocciose, persino una sabbiosa, che nulla hanno da invidiare a mete più esotiche. Col tempo mi piacerebbe raccontarvele a una a una ma… mi raccomando: non spargete troppo la voce! Già il turismo si è troppo velocemente sviluppato nell’adiacente paesino di Premantura, dove un tempo c’erano due soli ristoranti e una ristretta scelta di appartamenti in affitto dal sapore post-bellico, fra il decadente e il minimalista! Ora purtroppo la periferia del paesino è deturpata da costruzioni orripilanti, i ristoranti si sono moltiplicati, ed è necessario viverla in bassissima stagione per ritrovare l’atmosfera sperata: ma tant’è, siamo riusciti ad andare persino in questo 2020, a inizio giugno, scoprendo di essere i primi italiani in campeggio, e avremmo tanto voluto tornarci ora, d’autunno. 

In primavera il parco è un’esplosione di orchidee rare e giallo di ginestre; in estate dei fiori rimangono per un po’ quelli dei mirti, poi i colori e gli odori delle fioriture lasciano spazio a un suono, sempre lo stesso, profondo, continuo, ipnotico: il verso delle cicale, che diventa più forte man mano che si avvicina agosto. Ho provato a registrarlo, per portarlo con me, ma a nulla è valso lo sforzo: bisogna essere là per sentirlo vibrare. 



Da anni abbiniamo a ogni spiaggia uno dei tanti incredibili beach bar che sono sorti man mano negli anni dopo il primo, unico, inimitabile “Bar Safari”, che descriverò in seguito (merita una storia a parte). Quando si va alla spiaggia di Polje, l’aperitivo lo si prende al bar di Pininzule. Lo sanno bene gli amici e le amiche che ci seguono nei nostri itinerari, affidandosi alle nostre abitudini immodificabili, sulle quali si può fare un po’ d’ironia, ma che poi nessuno ripudia, essendo il frutto di anni di ricerca del maggiore benessere possibile! Chiamiamo questo luogo “il bar sotto il bosco”, perché ci richiama a un’ambientazione boschiva, anzi di più: montana, con la casetta di legno e gli abeti marittimi a regalare l’ombra più fresca del parco, perfetta per le giornate calde, quando è necessario rinfrescarsi con un “gemischt” (così ordiniamo lo spritz, alla tedesca, per distinguerlo dall’autoctona “bevanda”, dove il vino è mescolato all’acqua naturale). È uno dei pochi beach bar de cui non si vede il mare. Ma è il mio preferito. Sotto il bancone del bar Pininzule c’è una pedana di legno: come in un’eterna sagra, per anni (finché erano piccini e non si vergognavano di nulla) Valerio e i suoi amici hanno ballato e mangiato gelati dai nomi slavi là sopra, mentre la radio passava improbabili compilation, e noi giù a ridere e fotografarli, ché sapevamo non sarebbero stati mai più così liberi e felici. 





 Cockta, impressionismo e un appello ai più eruditi.

Siamo di nuovo in Slovenia. Lungo la strada che collega Divača a Rodik si può svoltare in direzione del paesino chiamato Dane. Quando comincerete a intravederlo vi affaccerete su una piccola valle deliziosa, con uno stagno sulla destra e un sentiero bianco che attraversa un paesaggio rubato a un quadro impressionista. In effetti, se sapessi dipingere, sarebbe questo uno dei luoghi dove mi recherei armata di cavalletto, tele e colori. Peccato che gli studi umanistici mi abbiano derubata di ogni manualità. Di solito la nostra meta è il ristorante “Osterija na Planinci”, dove ci accoglie un tripudio di gnocchi, porcini e griglia. Uno dei motivi per cui amiamo questo luogo è l’enorme vetrata che si affaccia su boschi e campi che è difficile descrivere, in special modo d’autunno, quando i colori del fogliame riempiono la sala del ristorante con la loro luce. I prezzi sono leggermente più elevati di quelli di altri ristoranti, ma la qualità del cibo e la vista valgono il piccolo sacrificio. Di solito si ha a che fare col giovane proprietario, molto cortese e dai modi urbani, ma a volte si ha la fortuna di incappare nel “boss” che, come la signora di “Pri Filetu”, ogni tanto regala perle di reale saggezza, con i modi diretti che io e Davide tanto apprezziamo! Una volta, ad esempio, Valerio stava bevendo la Cockta direttamente dalla bottiglietta, e lui si è avvicinato con espressione greve, ha scosso la testa e guardato nostro figlio dritto negli occhi: “Solo gli ubriaconi bevono dalla bottiglia”. Solo questo ha detto. Valerio, senza batter ciglio né rispondere, ha appoggiato la bottiglia sul tavolo. Il proprietario gli ha versato la bibita nel bicchiere, e senza dire nulla si è allontanato. Educazione d’altri tempi! 

Una nota sulla Cockta: si tratta di una bibita slovena, il cui principale ingrediente è il cinorrodo della Rosa Canina (l’ho scoperto ora, facendo qualche ricerca per questo pezzo, dopo anni di ignoranza!). La bevanda nacque negli anni Cinquanta nell’allora Jugoslavia, quale contraltare anticapitalista della più nota Coca Cola. Negli anni Sessanta fu uno dei prodotti jugoslavi più esportati, e la sua produzione continuò a ritmi importanti fino al decennio successivo, quando la Jugoslavia aprì il mercato ai prodotti occidentali. Negli ultimi anni, anche grazie a campagne pubblicitarie e alla rivisitazione del logo, è tornata in auge, quantomeno in Slovenia. Valerio la adora.

La scorsa domenica però non ci siamo fermati al ristorante. Dietro il locale si trovano una serie di sentieri che ispirano un particolare senso di pace e dai quali si possono raggiungere le famose Grotte di San Canziano e il parco naturale adiacente. Abbiamo poi esplorato il paese e intuito nelle sue vie una storia più lunga e interessante di quanto non lasci intuire quanto si può trovare sul Web (cioè poco, tranne per ciò che riguarda tragici eventi bellici, che in questa sede preferisco tralasciare, essendo motivo di scontri e polemiche che non riguardano questo sito). Statue e iscrizioni sui portici, pozzi antichi, simboli religiosi scavati dal tempo… Una passeggiata che ci ha lasciato il desiderio di capirne qualcosa di più. Ma sul Web, niente. Da qui il mio appello: qualcuno ha informazioni con buone fonti sulla storia meno recente di questo paesino?











Pane, pace e… glacolitico

Voglio tornare al più presto sul Sentiero della Pace. Questo per vari motivi. Il primo è che desidero vederlo in autunno, quando in Carso i colori vibrano. Poi, voglio cominciare a esplorare i 400 chilometri di questa via dedicata alla Grande Guerra, che si estende con innumerevoli diramazioni da Log pod Mangarton (o Bretto) a Trieste. Noi ci siamo arrivati percorrendo la statale 614, seguendo le indicazioni dopo Kostanjevica na Krasu; la giornata estiva era particolarmente afosa, motivo per cui abbiamo lasciato l’automobile a pochi passi dalla nostra meta: il memoriale di Cerje, un monumento denso di significati, con una bellezza archetipica, quasi surreale per posizione ed estetica. Si tratta di una torre alta 25 metri, dalla cui sommità il paesaggio raccoglie l’Adriatico, le Dolomiti , le Alpi Giulie e la Valle del Vipacco. Qui arrivo al terzo motivo che mi porterà di nuovo in zona: l’afa quel giorno portava con sé un’antipatica foschia, che non mi ha permesso né di vedere né di fotografare quel panorama eccezionale. La costruzione, che si può raggiungere da diversi sentieri, raccoglie reperti e informazioni sulla vita delle popolazioni e dei soldati durante la Prima Guerra Mondiale, oltre che esposizioni di pittori sloveni contemporanei. Dalla sommità si può ammirare le terre allora martoriate dall’orrore, ora luogo di pace dove camminare, pedalare, meditare.
Il museo ospita anche i più antichi manoscritti in una lingua slava (lo sloveno) per i quali sia stato utilizzato l’alfabeto latino. Si tratta di tre frammenti di argomento religioso ritrovati nel 1803 a Frisinga, in Baviera (da cui il nome). Il primo frammento proviene plausibilmente dal primo stato sloveno medievale, la Carantania (nel territorio dell’attuale Austria meridionale e della Slovenia nord-orientale), mentre gli altri due sarebbero stati scritti nella Pannonia slovena (nei pressi del lago Balaton) dai fratelli Cirillo e Metodio. I due, nati a Tessalonica nel IX secolo, inventarono l’alfabeto glacolitico per poter esprimere lo slavo, determinando la nascita del paleoslavo come lingua scritta, utilizzata per la traduzione dei testi evangelici. Approfondendo la questione abbiamo scoperto che anche nelle chiese di San Giuseppe della Chiusa e San Dorligo della Valle furono utilizzati testi in glacolitico. Come finì l’alfabeto glacolitico? A voler fare una battuta, verrebbe da dire: a vender fusi di gallina a Hum (altra tappa, altra storia…); in ogni caso, fu soppiantato da quello cirillico, in uso presso le popolazioni slave aderenti alla Chiesa ortodossa (Russi, Ucraini, Serbi e Bulgari).
Nella gita che proponiamo torna il concetto di pace: questa volta, quella dell’anima, quando ci si siede all’ombra dei gelsi secolari che rendono speciale la Gostilna Tabor. Il locale si trova a Vojščica, lungo la strada che unisce Kostanjevica na Krasu a Komen. La cucina è casalinga e gli ingredienti di produzione propria.
Fusi, gnocchi, goulash, gallina, stinco, pollo… di tante meraviglie cosa piace di più a Valerio? Il pane. In effetti ne propongono uno irresistibile. Sì: lo ammettiamo. Ce lo siamo portati a casa in un tovagliolo.






 

 Il primo giorno di vacanza... 

A malincuore quest’anno non siamo tornati in Istria, a settembre, come usiamo fare. Siamo andati a Grado, con l’idea di scoprire i percorsi ciclabili che offre. Mai pedalato tanto in vita mia… che faticoso piacere!
Ma facciamo un passo indietro, a giustificare il titolo di questo post. Nel centro di Grado, nei pressi dell’incrocio fra Piazza Duca D’Aosta e via Conte di Grado si trova La Botega, dove abbiamo pranzato il primo giorno di vacanza. L’idea era quella di pasteggiare “a cicchetti”, come si fa a Venezia quando si vuole risparmiare… i prezzi di Grado sono spesso “veneziani”, infatti! Il locale offre tartine molto gustose: noi abbiamo scelto un vassoio con 12 tartine e delle polpette (tutto di pesce): fenomenali, per il prezzo accettabilissimo di 22 euro. Si trattava di ordinare da bere; io suggerivo uno spritz a testa, o un quarto di bianco. Davide, ieratico, ha sentenziato: “Il primo giorno di vacanza va bene mezzo litro.” Era così serio che non ho potuto contraddirlo. Attenzione però, che il vino fa lievitare il prezzo, quindi tutto sommato, nonostante la saggezza dell’affermazione, consiglierei due spritz. Il locale è molto carino, con tavolini di legno e un’atmosfera raffinata, a differenza di quella del locale accanto, De la bira, molto più rustico, ma altrettanto gradito; ci siamo andati qualche giorno dopo, attirati proprio dall’impressione che non fosse necessariamente rivolto ai turisti. Non siamo rimasti delusi: bruschette per noi e un ottimo pollo con delle patatine strepitose per Valerio, birra alla spina di buona qualità e avventori del luogo. I prezzi sarebbero stati contenuti se la birra non fosse stata buona: diciamo che se ci si accontenta di due birre grandi e una bibita, in tre si può mangiare con 40 euro circa.
Ma torniamo alle ciclabili: una scoperta. Praticamente da Grado in bicicletta si può arrivare ovunque! La città è infatti caratterizzata da una rete di piste ciclabili interne e attraversata dalla Ciclovia Alpe Adria (che inizia a Salisburgo!) e dall’Adriabike (Kranjska Gora – Trieste; Koper – Venezia; Venezia – Ravenna). Naturalmente non abbiamo attraversato l’Alpe Adria, ma sognando di farlo abbiamo pedalato quel che le nostre gambe (soprattutto quelle di Valerio) ci permettevano. Il primo percorso che abbiamo coperto parte da Grado (nel nostro caso, Pineta) e arriva alla Riserva naturale del Caneo, passando per la riserva della Valle Cavanata (posti ottimi per gli uccelli, direbbe mio marito). Il tratto che collega le due riserve naturali è spettacolare. Una ventina di chilometri per andare, altrettanto per tornare… (alla sera ero a pezzi).
Il secondo percorso ci ha stupito ancora di più: la strada sulla diga che collega Grado alla strada che conduce ad Aquileia è affiancata da una ciclabile che offre una vista da sogno: praticamente si pedala sul mare per chilometri. Bisogna percorrere su strada solo pochi metri iniziali, nei quali prestare molta attenzione perché su un dosso e in curva (concetto che ripetevo a mio figlio in modo colorito mentre lo obbligavo a portare la bici a mano in quel tratto e a subire il mio urlo forsennato “stai a destra!”, che poi ho ripetuto giusto un centinaio di volte, quando in ciclabile da dietro arrivavano i Bartali della domenica). Alla fine della diga, il paesaggio muta in campagna, per poi addolcirsi, nelle prossimità di Aquileia, dove consiglio vivamente di visitare il Museo Archeologico Nazionale. Ho quasi trascinato sia Davide che Valerio, ma poi siamo tutti rimasti stupiti dalla ricchezza dei reperti che espone. Veramente, un’esposizione degna di quelle di città più grandi e famose. Se siete in zona, ma questa volta non in bici, di modo da poter caricare l'auto, fate una visita alle Cantine Ca’ Tullio, che si affacciano sulla statale all’ingresso di Aquileia: una struttura molto gradevole dal punto di vista estetico, che racchiude la sorpresa di vini d’ogni genere e prezzo (anche molto conveniente), sfusi, in bottiglia, in box da cinque o dieci litri, tutti di estrema qualità. Davanti a noi c’erano due signori sulla settantina, marito e moglie, che hanno acquistato dieci box da dieci litri di svariati tipi di vino, alcune bottiglie di spumante di pregio, e qualsiasi cosa capitasse sotto tiro alla signora (c’è della farina per polenta? La voglio. C’è una bottiglietta di grappa con una confezione regalo? Pure). Hanno fermato la fila, ma ci stavano simpatici: ci siamo chiesti in quanto tempo avrebbero consumato il tutto, con scommesse sulla quantità giornaliera: ipotizzavamo, quella del primo giorno di vacanza!







 Due fantasmi.

Chi è nato a Trieste o vi abita da anni, come me, spesso soffre di una sorta di assuefazione al bello, che  sarei tentata di definire come una Sindrome di Stendhal "all'incontrario". Accade così che spazi eccezionali nella forma e nella storia diventino sfondo, piuttosto che figura. I suoi castelli, ad esempio. I triestini non ne fanno spesso la meta delle loro passeggiate, lasciandoli ai turisti. 
Camminando lungo la Costa dei Barbari, nel tratto che parte dall'edificio (anch'esso mirabile) dell'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, ho notato come la luce del sole colpisse in modo suggestivo il Castello di Duino. Tornata a casa, mi sono resa conto di conoscere la storia e le leggende attorno a questo edificio molto superficialmente, così che ho compiuto qualche ricerca. L'impressione che ne ho ricavato mi ha spinto a ripetere la medesima operazione per il Castello di Miramare. Alla fine, li ho immaginati uniti da una linea immaginaria, così vicini nel loro succedersi in un breve tratto di costa, con la loro perfezione conficcata nel mare, la loro pietra, i giardini sontuosi, e le storie che custodiscono, come quelle (per certi versi di estrema attualità) della Dama Bianca e di Carlotta del Belgio, i cui leggendari fantasmi, dal mio punto di vista, rappresentano alcune questioni significative legate al genere. 
Il castello di Duino è proprietà da secoli (fine XVI secolo) della famiglia Della Torre; nel tempo è passato di mano dal ramo Della Torre di Valsassina (germanizzato in Von Thurn Valsassina) a quello dei Della Torre e Tasso (Thurn und Taxis). Come possono suggerire le versioni tedesche dei loro nomi, entrambe le famiglie furono al servizio del Sacro Romano Impero, per poi tornare al loro nome italiano quando nel 1923 Alexander, erede del castello, venne nominato duca da Vittorio Emanuele III.
Vicino al castello dei Torre e Tasso vi sono i resti del castello vecchio, originario del X secolo: si tratta di rovine arroccate su un promontorio proprietà dei primi signori di Duino, feudatari dei patriarchi di Aquileia, ed è qui che risiederebbe il famoso fantasma della Dama Bianca. In realtà di "dame bianche" ce ne sono diverse, il che fa deporre per un'origine antichissima della narrazione, e dell'archetipo che rappresenta. Questo genere di spiriti fa infatti parte della cultura e del folklore europeo da secoli e la prima testimonianza dell’utilizzo di questo termine risale al XV secolo. Si tratta di fantasmi di donne morte in seguito a eventi tragici. Nel caso della Dama Bianca, si può senza dubbio definire l'evento in questione un femminicidio. Sottolineo l'importanza della distinzione di questo reato dall'omicidio per le implicazioni socio-culturali e giuridiche messe in questo terribile gioco. 
Il nome della dama pare fosse Esterina da Portole, una nobildonna sposata al signore del castello; questi era un uomo violento e sanguinario, paranoico e dedito all'alcol, con l’incubo d'essere tradito dalla moglie, che per questo diveniva oggetto continuo di insulti e crudeltà, fino all'ultima e più estrema: una notte, ubriaco e folle di gelosia, gettò la dama dal dirupo del vecchio castello. La leggenda vuole che nella caduta la donna invocasse l'aiuto divino, che giunse, risparmiandole l'impatto col mare e "fermandola" sul dirupo, dove ancora si può scorgere le sue sembianze, sotto forma di una bianca e immobile roccia. 
Percorriamo ora l'invisibile linea di significato che  unisce il Castello di Duino a quello di Miramare, e la Dama a Carlotta.
Marie Charlotte Amelie Augustine Victoire Clémentine Léopoldine de Saxe-Coburg-Gotha, conosciuta con il nome di Carlotta, nacque Principessa del Belgio nel 1840.
A 16 anni conobbe Ferdinando Massimiliano D’Asburgo Lorena e se ne innamorò, corrisposta. L'anno successivo si sposarono (i matrimoni per scelta amorosa erano piuttosto rari) acquisendo il titolo di Arciduchessa d’Austria. Seguì il marito in Italia, prima a Milano quando venne nominato viceré e poi a Trieste quando venne congedato da quell'incarico. Max (come veniva chiamato dagli intimi) fece costruire il Castello di Miramare per lei, e fu lì che trascorsero i loro anni più felici: passeggiavano in riva al mare, dipingevano, si dedicavano alla musica e alla pittura. La loro vita a Miramare venne interrotta dall'offerta di un trono in Messico. Massimiliano accettò e con Carlotta lasciò Trieste alla volta del suo nuovo regno: dopo un viaggio durato un mese e mezzo, il 28 maggio 1864  arrivarono in Messico. Là trovarono però una situazione politica tutt’altro che favorevole alla monarchia. Furono anni segnati da pesanti tensioni: le riforme, cui anche Carlotta lavorava senza risparmiarsi, stentavano a produrre effetti in quell'immenso paese dilaniato da interni contrasti sociali e razziali. Per di più i due coniugi non stavano quasi mai insieme: Massimiliano era sempre in viaggio, attratto dalle esotiche bellezze del luogo. Scriveva alla moglie tenerissime lettere ma, allo stesso tempo, era sempre più distante emotivamente da lei. Un'ombra di tristezza circondava Carlotta, quando carica di gioielli e sfarzosamente abbigliata appariva alle cerimonie pubbliche. I primi sintomi di una sua profonda sofferenza comparvero in Messico, nell'ultimo periodo dei torbidi che avrebbero portato Massimiliano alla morte. Nel periodo di maggiori contrasti per la monarchia Carlotta si recò in Europa per chiedere aiuto a Napoleone III e al Papa. Ma né l'uno né l'altro concessero il sostegno sperato. Fu allora che qualcosa si ruppe, dentro di lei. Cominciò a temere d'essere avvelenata, a torto o ragione, ma fino al delirio. 
Massimiliano venne arrestato dalle truppe repubblicane messicane e fucilato nel 1876. Carlotta crollò definitivamente alla notizia della morte del marito. Per un periodo, pare sofferente fino alla follia, visse rinchiusa nel Castelletto di Miramare, per poi essere ricondotta in Belgio per volontà della cognata Maria Enrichetta d’Asburgo-Lorena nel castello di Bouchout, nei pressi di Bruxelles, dove visse fino alla morte che la sorprese nel gennaio del 1927.
Queste due storie hanno in comune non solo la geografia, ma anche la sensazione che la realtà di queste donne sia stata appiattita attorno a un'aura romantica che poco le rappresenta. Mi piace pensarle più vere, ora che ho studiato un poco le loro storie. 
Ma andiamo al sodo. Lungo la linea che congiunge i due castelli, naturalmente c'è un luogo di ristoro: il ristorante Bellariva. Si trova subito dopo la galleria di Grignano, imboccando sulla sinistra la via Piccard, che conduce sino a una spiaggia libera.  Alla fine di via Piccard, occorre imboccare i gradini seguendo un ripido passaggio che  conduce fino alla piccola spiaggia di ciottoli, i Filtri di Aurisina.


Un articolato sistema di vasche sotterranee e pompe raccoglie l'acqua dolce che dopo diversi filtraggi depurativi (da qui si ipotizza derivi il nome della spiaggia), contribuisce ad approvvigionare la città. 
Il ristorante è aperto da Pasqua fino a ottobre. Nelle domeniche estive è poco praticabile per chi non ami il parcheggio selvaggio sulla Costiera e l'eccesso di bagnanti affamati. Ogni anno giunge però una domenica di pioggia, di cui approfittiamo per mangiare buon pesce a prezzi accettabilissimi, con uno sguardo sul mare in tempesta dalla terrazza che si sporge sul mare.

 Sul Talm

Siamo di nuovo in Friuli Venezia Giulia, per la precisione in Val Pesarina, detta anche Valle del Tempo. Imboccata la statale numero 465 dal tratto di strada che unisce Ovaro a Comeglians, prima di Avausa giriamo a destra, a scoprire l’abitato di Sostasio, il cui nome sembra derivare da “sub statium”, ovvero stazione (romana) situata sotto l’anitca strada che conduceva al Comelico. Da questo paese ben esposto al sole e con un’architettura assolutamente rispettosa dei canoni tradizionali è possibile raggiungere in circa tre ore la cima del Monte Talm, quota 1093 metri, punto di osservazione e contemplazione estatica di un paesaggio a trecentosessanta gradi che abbraccia tutta la Carnia. Per i guidatori meno esperti è consigliabile lasciare l’auto in paese; altrimenti, con gran prudenza e preferibilmente con un mezzo adatto alle pendenze e alle strade sterrate, è possibile proseguire fino al divieto di transito e lasciare l’auto lungo la strada o nello spazio antistante il rifugio (attualmente chiuso). Per chi percorra il tragitto da Sostasio è d’obbligo uno sguardo al minuscolo abitato di Luc, sogno paesaggistico e incubo alla Stephen King: lo spaventapasseri che ghigna alle porte del paese semiabbandonato introduce all’atmosfera orrorifica di un luogo dove certamente abita il babau di queste parti, chiamato “il Boborošo”.
 L’ascesa al Talm è piuttosto faticosa, ma adatta veramente a tutti per ciò che riguarda la praticabilità (solo l’ultimo tratto, a ridosso della cima, richiede un po’ di attenzione, ma anche qua i miei canoni di estrema prudenza appariranno eccessivi ai più!).
Al rientro, è d’obbligo una tappa enogastronomica all’agriturismo Plan da Crosc di Croce, appena sotto Sostasio, dove a un prezzo che senza alcun dubbio vi stupirà positivamente potrete assaggiare il meglio della cucina carnica: gnocchi con (abbondante) burro e ricotta affumicata, cjarsons, polenta, frico, spezzatino, minestre della tradizione. 
Sempre partendo da Sostasio vi consigliamo un altro itinerario: sopra l’abitato di Luc vedrete l’indicazione del sentiero che conduce a Prico. È una camminata molto più “morbida” di quella per il Talm, in un bosco secolare dove non è difficile imbattersi in qualche cerbiatto, se si cammina in silenzio. Raggiunto l’abitato di Prico, potrebbe essere l’ora dell’aperitivo (cioè le 18, rigorosamente, che vuol dire non prima e soprattutto non dopo, nelle nostre regole familiari): vale la pena allora scendere a Prato Carnico, e poco prima del suo campanile pendente (la torre di Pisa della Valle!) raggiungere l’albergo, bar e ristorante Ai sette nani, dove da anni amiamo sederci all’esterno e goderci la vista dei monti antistanti. Le colorite esclamazioni dei locali che giocano a carte sono per fortuna solo parzialmente comprensibili per la parlata stretta del dialetto della Valle…





 La Casa del Diavolo

Percorrendo la strada che risale il canale di Gorto, nel tratto compreso tra Ovaro e Comeglians, da una vita svolto a  sinistra, sulla statale n.465, in direzione di Sostasio. Siamo in Val Pesarina, luogo tanto solare e vitale quanto desolato e freddo, in un continuum legato alla stagione, all’umore, al momento storico, alla condizione socioeconomica che distingue chi (soprattutto in un passato non troppo lontano) ha faticato per sopravvivere a una terra aspra o ha dovuto emigrare oltreconfine e chi ha vissuto epoche di maggior benessere, o ha goduto dei benefici dei “villeggianti” (come ancora oggi qui vengono chiamati i turisti).
Non si può che soffermarsi su un elemento alla volta, nell’esposizione delle numerose mete da esplorare in questo microcosmo denso di opportunità: oggi, gli stavoli di Orias.
Oltrepassati gli abitati di Prato Carnico e Pieria, si prosegue in direzione Osais, svoltando a sinistra e raggiungendo il paesino di Truia, dove i guidatori meno avvezzi a strade strette, pendenti e con curve impegnative lasceranno l’automobile. Premetto, per questo itinerario e quelli che seguiranno, che la mia idea di strada pericolosa si differenzia in modo significativo da quella di Davide, motivo per cui trascorro gran parte del tempo di percorrenza verso le nostre mete montane aggrappata alla maniglia del lato passeggero, urlando come un pappagallo sul trespolo.
Poco sopra l’abitato, a un’altitudine di circa 1000 metri, meraviglia: gli stavoli. Queste tipiche costruzioni di montagna nascono come dimora temporanea adibita al ricovero di animali e al deposito di foraggio e fieno, ma col tempo sono diventati luoghi dove i (fortunati!) proprietari trascorrono la domenica a suon di griglia, polenta e merlot. L’elemento caratteristico degli stavoli di Orias è caratterizzato dal fatto che i fabbricati sono stati costruiti ravvicinati l’uno all’altro (solitamente sono distanziati, ognuno corrispondente a un appezzamento di terreno) e dal fatto che tutti hanno il medesimo orientamento, verso la Valle.
Guardatevi attorno: a est vedrete il monti Arvenis, Tamai e il cubo dello Zoncolan, a ovest la Creta di Mimoias, di fronte le montagne che separano la Val Pesarina dalla conca di Sauris, alle spalle le dolomiti pesarine. Uno degli infiniti paesaggi da lasciar senza fiato in queste zone ancora solo parzialmente investite dal flusso turistico degli amanti degli sport di montagna: è ancora oggi più facile trovarci chi, come noi, conosce la Valle “perché ci viene da quando era bambino”, spinto dal desiderio di rivivere quell’ineffabile magia sperimentata nell’infanzia.
Oggi vi portiamo a fare un sostanzioso spuntino in un locale con una storia importante, direi un condensato delle vicende più significative del XX secolo in queste zone: la Casa del Popolo di Pieria. All’epoca della sua costruzione i clericali la chiamavano con spregio “Casa del Diavolo”, e per un brevissimo periodo si è trasformata in “Casa del Littorio”: questo valzer di nomi ci fa comprendere il valore simbolico di questo luogo, rinato nel 2013 dopo diversi anni di chiusura, sede della Biblioteca Comunale, di un bar con cucina e dotato di camere per il pernottamento.
L’edificio fu costruito fra il 1909 e il 1910 grazie a uno sforzo economico collettivo dell’intera comunità, che mise in campo i propri (pochi) averi e la forza fisica di uomini e donne, con l’idea di ospitare le associazioni della vallata e di essere un luogo di confronto, di svago e di incontro per i lavoratori carnici. La fondazione della Casa del Popolo rappresentò l’apice dello sviluppo del movimento operaio in Carnia, nonché il segno dell’affermarsi della corrente parallela dell’anarchismo, tanto che nel giorno dell’inaugurazione, il 2 febbraio 1913, si tennero due discorsi per certi versi contrapposti, rappresentanti i due movimenti, che affondavano le loro radici comuni nei concetti di unità, autoorganizzazione e cooperativismo già praticate da decenni in queste valli. Ci si può chiedere come mai tanto fermento in questi luoghi così decentrati: fu l’emigrazione, scelta obbligata per molta parte della storia della Carnia, il veicolo per la diffusione di innovazioni politiche e culturali come l’internazionalismo, l’anticlericalismo e l’antimilitarismo. Gli emigranti infatti ritornavano nella Valle stagionalmente, portando nei paesi una possibile risposta a povertà e sfruttamento da parte dei “poteri forti”: l’idea di “organizzarsi da sé”.
Temiamo di aver annoiato chi di voi non è interessato ai rivolti storici, quindi andiamo al sodo: alla Casa del Popolo, gestita attualmente da “Cycletaurus”, rete di accompagnatori cicloturistici del Friuli Venezia Giulia, potrete mangiare salumi, formaggi, polenta, frico, selvaggina, salsiccia ed eccellenti dolci spendendo dai 10 ai 20 euro a persona. Tenete presente che in tutta la Valle il tajut (o taglio di vino) costa un euro o poco più… e che vino!
Terminata la merenda, pensate alla prossima gita, perchè gli itinerari in zona sono infiniti…





 Da Alison 

Con questo post vi introdurremo a uno dei sancta sanctorum delle nostre vacanze estive: il paesino istriano di Premantura, situato sulla punta estrema dell’Istria, con un centro storico miracolosamente scampato allo scempio delle costruzioni turistiche selvagge (che purtroppo ne imbruttiscono la periferia), e il ristorante che ci vede arrivare ogni volta con lacertezza di una doccia di serotonina e dei sapori desiderati nella lunga attesa dell’inverno: il nome ufficiale è “Restaurant Premantura”, ma tutti gli affezionati lo chiamano “Da Alison”, in onore della simpatica e brava proprietaria, che vi accoglierà con un sorriso affettuoso, i lunghi capelli neri raccolti in una coda e l’inconfondibile parlata in italiano degli istriani che vivono in queste zone da generazioni. Per trovare questo luogo a cui siamo particolarmente affezionati basta individuare il campanile del paese: davanti c’è un’edicola, poi un negozio “di strafanicci” (come li chiama Valerio) e quindi, finalmente, il simbolo del pesce, a indicare l’ingresso nel locale e nella storia del paese. Sì, la storia, perché le prime volte che abbiamo soggiornato a Premantura, quasi vent’anni fa, era uno dei tre o quattro locali aperti, in un paese sconosciuto al turismo dei più. Davide ogni (ma proprio ogni) volta che ci andiamo racconta di quando il ristorante era gestito dal papà di Alison, che sedeva al tavolo dei (probabilmente molesti) vespisti a raccontare loro storie di mare.
Personalmente apprezzo particolarmente l’antipasto di prosciutto e formaggio istriani, il risotto ai frutti di mare, il djuvec (un riso con verdure proposto di solito come contorno, ma meritevole,  quando buono come quello di Alison, di essere la portata principale). Valerio a un anno qui reclamava una porzione di “spaghetti alla bolognese” con un ragù fatto in casa (quasi) buono come quello della nonna. Davide apprezza particolarmente la malvasia.
Delle bellezze della Riserva naturale di Kamenjak e dei svariati beach bar che la allietano vorremo parlare in modo dettagliato al più presto. Qui dico solo che è uno dei luoghi più suggestivi in cui si possa incappare in Croazia, senza timore di esagerare: scogliere a picco sul mare, mirti, ginestre e orchidee rare, (mio marito mi suggerisce) svariate specie di uccelli migratori, un lungo e selvaggio percorso accessibile a piedi e in mountain bike.
(…continua…)








Preadolescenza, castelli e tesori nascosti.

Portare un preadolescente a visitare antiche vestigia di castelli sotto il sole cocente dell’estate potrà costarvi una sequela significativa...