Pane, pace e… glacolitico

Voglio tornare al più presto sul Sentiero della Pace. Questo per vari motivi. Il primo è che desidero vederlo in autunno, quando in Carso i colori vibrano. Poi, voglio cominciare a esplorare i 400 chilometri di questa via dedicata alla Grande Guerra, che si estende con innumerevoli diramazioni da Log pod Mangarton (o Bretto) a Trieste. Noi ci siamo arrivati percorrendo la statale 614, seguendo le indicazioni dopo Kostanjevica na Krasu; la giornata estiva era particolarmente afosa, motivo per cui abbiamo lasciato l’automobile a pochi passi dalla nostra meta: il memoriale di Cerje, un monumento denso di significati, con una bellezza archetipica, quasi surreale per posizione ed estetica. Si tratta di una torre alta 25 metri, dalla cui sommità il paesaggio raccoglie l’Adriatico, le Dolomiti , le Alpi Giulie e la Valle del Vipacco. Qui arrivo al terzo motivo che mi porterà di nuovo in zona: l’afa quel giorno portava con sé un’antipatica foschia, che non mi ha permesso né di vedere né di fotografare quel panorama eccezionale. La costruzione, che si può raggiungere da diversi sentieri, raccoglie reperti e informazioni sulla vita delle popolazioni e dei soldati durante la Prima Guerra Mondiale, oltre che esposizioni di pittori sloveni contemporanei. Dalla sommità si può ammirare le terre allora martoriate dall’orrore, ora luogo di pace dove camminare, pedalare, meditare.
Il museo ospita anche i più antichi manoscritti in una lingua slava (lo sloveno) per i quali sia stato utilizzato l’alfabeto latino. Si tratta di tre frammenti di argomento religioso ritrovati nel 1803 a Frisinga, in Baviera (da cui il nome). Il primo frammento proviene plausibilmente dal primo stato sloveno medievale, la Carantania (nel territorio dell’attuale Austria meridionale e della Slovenia nord-orientale), mentre gli altri due sarebbero stati scritti nella Pannonia slovena (nei pressi del lago Balaton) dai fratelli Cirillo e Metodio. I due, nati a Tessalonica nel IX secolo, inventarono l’alfabeto glacolitico per poter esprimere lo slavo, determinando la nascita del paleoslavo come lingua scritta, utilizzata per la traduzione dei testi evangelici. Approfondendo la questione abbiamo scoperto che anche nelle chiese di San Giuseppe della Chiusa e San Dorligo della Valle furono utilizzati testi in glacolitico. Come finì l’alfabeto glacolitico? A voler fare una battuta, verrebbe da dire: a vender fusi di gallina a Hum (altra tappa, altra storia…); in ogni caso, fu soppiantato da quello cirillico, in uso presso le popolazioni slave aderenti alla Chiesa ortodossa (Russi, Ucraini, Serbi e Bulgari).
Nella gita che proponiamo torna il concetto di pace: questa volta, quella dell’anima, quando ci si siede all’ombra dei gelsi secolari che rendono speciale la Gostilna Tabor. Il locale si trova a Vojščica, lungo la strada che unisce Kostanjevica na Krasu a Komen. La cucina è casalinga e gli ingredienti di produzione propria.
Fusi, gnocchi, goulash, gallina, stinco, pollo… di tante meraviglie cosa piace di più a Valerio? Il pane. In effetti ne propongono uno irresistibile. Sì: lo ammettiamo. Ce lo siamo portati a casa in un tovagliolo.






 

 Il primo giorno di vacanza... 

A malincuore quest’anno non siamo tornati in Istria, a settembre, come usiamo fare. Siamo andati a Grado, con l’idea di scoprire i percorsi ciclabili che offre. Mai pedalato tanto in vita mia… che faticoso piacere!
Ma facciamo un passo indietro, a giustificare il titolo di questo post. Nel centro di Grado, nei pressi dell’incrocio fra Piazza Duca D’Aosta e via Conte di Grado si trova La Botega, dove abbiamo pranzato il primo giorno di vacanza. L’idea era quella di pasteggiare “a cicchetti”, come si fa a Venezia quando si vuole risparmiare… i prezzi di Grado sono spesso “veneziani”, infatti! Il locale offre tartine molto gustose: noi abbiamo scelto un vassoio con 12 tartine e delle polpette (tutto di pesce): fenomenali, per il prezzo accettabilissimo di 22 euro. Si trattava di ordinare da bere; io suggerivo uno spritz a testa, o un quarto di bianco. Davide, ieratico, ha sentenziato: “Il primo giorno di vacanza va bene mezzo litro.” Era così serio che non ho potuto contraddirlo. Attenzione però, che il vino fa lievitare il prezzo, quindi tutto sommato, nonostante la saggezza dell’affermazione, consiglierei due spritz. Il locale è molto carino, con tavolini di legno e un’atmosfera raffinata, a differenza di quella del locale accanto, De la bira, molto più rustico, ma altrettanto gradito; ci siamo andati qualche giorno dopo, attirati proprio dall’impressione che non fosse necessariamente rivolto ai turisti. Non siamo rimasti delusi: bruschette per noi e un ottimo pollo con delle patatine strepitose per Valerio, birra alla spina di buona qualità e avventori del luogo. I prezzi sarebbero stati contenuti se la birra non fosse stata buona: diciamo che se ci si accontenta di due birre grandi e una bibita, in tre si può mangiare con 40 euro circa.
Ma torniamo alle ciclabili: una scoperta. Praticamente da Grado in bicicletta si può arrivare ovunque! La città è infatti caratterizzata da una rete di piste ciclabili interne e attraversata dalla Ciclovia Alpe Adria (che inizia a Salisburgo!) e dall’Adriabike (Kranjska Gora – Trieste; Koper – Venezia; Venezia – Ravenna). Naturalmente non abbiamo attraversato l’Alpe Adria, ma sognando di farlo abbiamo pedalato quel che le nostre gambe (soprattutto quelle di Valerio) ci permettevano. Il primo percorso che abbiamo coperto parte da Grado (nel nostro caso, Pineta) e arriva alla Riserva naturale del Caneo, passando per la riserva della Valle Cavanata (posti ottimi per gli uccelli, direbbe mio marito). Il tratto che collega le due riserve naturali è spettacolare. Una ventina di chilometri per andare, altrettanto per tornare… (alla sera ero a pezzi).
Il secondo percorso ci ha stupito ancora di più: la strada sulla diga che collega Grado alla strada che conduce ad Aquileia è affiancata da una ciclabile che offre una vista da sogno: praticamente si pedala sul mare per chilometri. Bisogna percorrere su strada solo pochi metri iniziali, nei quali prestare molta attenzione perché su un dosso e in curva (concetto che ripetevo a mio figlio in modo colorito mentre lo obbligavo a portare la bici a mano in quel tratto e a subire il mio urlo forsennato “stai a destra!”, che poi ho ripetuto giusto un centinaio di volte, quando in ciclabile da dietro arrivavano i Bartali della domenica). Alla fine della diga, il paesaggio muta in campagna, per poi addolcirsi, nelle prossimità di Aquileia, dove consiglio vivamente di visitare il Museo Archeologico Nazionale. Ho quasi trascinato sia Davide che Valerio, ma poi siamo tutti rimasti stupiti dalla ricchezza dei reperti che espone. Veramente, un’esposizione degna di quelle di città più grandi e famose. Se siete in zona, ma questa volta non in bici, di modo da poter caricare l'auto, fate una visita alle Cantine Ca’ Tullio, che si affacciano sulla statale all’ingresso di Aquileia: una struttura molto gradevole dal punto di vista estetico, che racchiude la sorpresa di vini d’ogni genere e prezzo (anche molto conveniente), sfusi, in bottiglia, in box da cinque o dieci litri, tutti di estrema qualità. Davanti a noi c’erano due signori sulla settantina, marito e moglie, che hanno acquistato dieci box da dieci litri di svariati tipi di vino, alcune bottiglie di spumante di pregio, e qualsiasi cosa capitasse sotto tiro alla signora (c’è della farina per polenta? La voglio. C’è una bottiglietta di grappa con una confezione regalo? Pure). Hanno fermato la fila, ma ci stavano simpatici: ci siamo chiesti in quanto tempo avrebbero consumato il tutto, con scommesse sulla quantità giornaliera: ipotizzavamo, quella del primo giorno di vacanza!







 Due fantasmi.

Chi è nato a Trieste o vi abita da anni, come me, spesso soffre di una sorta di assuefazione al bello, che  sarei tentata di definire come una Sindrome di Stendhal "all'incontrario". Accade così che spazi eccezionali nella forma e nella storia diventino sfondo, piuttosto che figura. I suoi castelli, ad esempio. I triestini non ne fanno spesso la meta delle loro passeggiate, lasciandoli ai turisti. 
Camminando lungo la Costa dei Barbari, nel tratto che parte dall'edificio (anch'esso mirabile) dell'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, ho notato come la luce del sole colpisse in modo suggestivo il Castello di Duino. Tornata a casa, mi sono resa conto di conoscere la storia e le leggende attorno a questo edificio molto superficialmente, così che ho compiuto qualche ricerca. L'impressione che ne ho ricavato mi ha spinto a ripetere la medesima operazione per il Castello di Miramare. Alla fine, li ho immaginati uniti da una linea immaginaria, così vicini nel loro succedersi in un breve tratto di costa, con la loro perfezione conficcata nel mare, la loro pietra, i giardini sontuosi, e le storie che custodiscono, come quelle (per certi versi di estrema attualità) della Dama Bianca e di Carlotta del Belgio, i cui leggendari fantasmi, dal mio punto di vista, rappresentano alcune questioni significative legate al genere. 
Il castello di Duino è proprietà da secoli (fine XVI secolo) della famiglia Della Torre; nel tempo è passato di mano dal ramo Della Torre di Valsassina (germanizzato in Von Thurn Valsassina) a quello dei Della Torre e Tasso (Thurn und Taxis). Come possono suggerire le versioni tedesche dei loro nomi, entrambe le famiglie furono al servizio del Sacro Romano Impero, per poi tornare al loro nome italiano quando nel 1923 Alexander, erede del castello, venne nominato duca da Vittorio Emanuele III.
Vicino al castello dei Torre e Tasso vi sono i resti del castello vecchio, originario del X secolo: si tratta di rovine arroccate su un promontorio proprietà dei primi signori di Duino, feudatari dei patriarchi di Aquileia, ed è qui che risiederebbe il famoso fantasma della Dama Bianca. In realtà di "dame bianche" ce ne sono diverse, il che fa deporre per un'origine antichissima della narrazione, e dell'archetipo che rappresenta. Questo genere di spiriti fa infatti parte della cultura e del folklore europeo da secoli e la prima testimonianza dell’utilizzo di questo termine risale al XV secolo. Si tratta di fantasmi di donne morte in seguito a eventi tragici. Nel caso della Dama Bianca, si può senza dubbio definire l'evento in questione un femminicidio. Sottolineo l'importanza della distinzione di questo reato dall'omicidio per le implicazioni socio-culturali e giuridiche messe in questo terribile gioco. 
Il nome della dama pare fosse Esterina da Portole, una nobildonna sposata al signore del castello; questi era un uomo violento e sanguinario, paranoico e dedito all'alcol, con l’incubo d'essere tradito dalla moglie, che per questo diveniva oggetto continuo di insulti e crudeltà, fino all'ultima e più estrema: una notte, ubriaco e folle di gelosia, gettò la dama dal dirupo del vecchio castello. La leggenda vuole che nella caduta la donna invocasse l'aiuto divino, che giunse, risparmiandole l'impatto col mare e "fermandola" sul dirupo, dove ancora si può scorgere le sue sembianze, sotto forma di una bianca e immobile roccia. 
Percorriamo ora l'invisibile linea di significato che  unisce il Castello di Duino a quello di Miramare, e la Dama a Carlotta.
Marie Charlotte Amelie Augustine Victoire Clémentine Léopoldine de Saxe-Coburg-Gotha, conosciuta con il nome di Carlotta, nacque Principessa del Belgio nel 1840.
A 16 anni conobbe Ferdinando Massimiliano D’Asburgo Lorena e se ne innamorò, corrisposta. L'anno successivo si sposarono (i matrimoni per scelta amorosa erano piuttosto rari) acquisendo il titolo di Arciduchessa d’Austria. Seguì il marito in Italia, prima a Milano quando venne nominato viceré e poi a Trieste quando venne congedato da quell'incarico. Max (come veniva chiamato dagli intimi) fece costruire il Castello di Miramare per lei, e fu lì che trascorsero i loro anni più felici: passeggiavano in riva al mare, dipingevano, si dedicavano alla musica e alla pittura. La loro vita a Miramare venne interrotta dall'offerta di un trono in Messico. Massimiliano accettò e con Carlotta lasciò Trieste alla volta del suo nuovo regno: dopo un viaggio durato un mese e mezzo, il 28 maggio 1864  arrivarono in Messico. Là trovarono però una situazione politica tutt’altro che favorevole alla monarchia. Furono anni segnati da pesanti tensioni: le riforme, cui anche Carlotta lavorava senza risparmiarsi, stentavano a produrre effetti in quell'immenso paese dilaniato da interni contrasti sociali e razziali. Per di più i due coniugi non stavano quasi mai insieme: Massimiliano era sempre in viaggio, attratto dalle esotiche bellezze del luogo. Scriveva alla moglie tenerissime lettere ma, allo stesso tempo, era sempre più distante emotivamente da lei. Un'ombra di tristezza circondava Carlotta, quando carica di gioielli e sfarzosamente abbigliata appariva alle cerimonie pubbliche. I primi sintomi di una sua profonda sofferenza comparvero in Messico, nell'ultimo periodo dei torbidi che avrebbero portato Massimiliano alla morte. Nel periodo di maggiori contrasti per la monarchia Carlotta si recò in Europa per chiedere aiuto a Napoleone III e al Papa. Ma né l'uno né l'altro concessero il sostegno sperato. Fu allora che qualcosa si ruppe, dentro di lei. Cominciò a temere d'essere avvelenata, a torto o ragione, ma fino al delirio. 
Massimiliano venne arrestato dalle truppe repubblicane messicane e fucilato nel 1876. Carlotta crollò definitivamente alla notizia della morte del marito. Per un periodo, pare sofferente fino alla follia, visse rinchiusa nel Castelletto di Miramare, per poi essere ricondotta in Belgio per volontà della cognata Maria Enrichetta d’Asburgo-Lorena nel castello di Bouchout, nei pressi di Bruxelles, dove visse fino alla morte che la sorprese nel gennaio del 1927.
Queste due storie hanno in comune non solo la geografia, ma anche la sensazione che la realtà di queste donne sia stata appiattita attorno a un'aura romantica che poco le rappresenta. Mi piace pensarle più vere, ora che ho studiato un poco le loro storie. 
Ma andiamo al sodo. Lungo la linea che congiunge i due castelli, naturalmente c'è un luogo di ristoro: il ristorante Bellariva. Si trova subito dopo la galleria di Grignano, imboccando sulla sinistra la via Piccard, che conduce sino a una spiaggia libera.  Alla fine di via Piccard, occorre imboccare i gradini seguendo un ripido passaggio che  conduce fino alla piccola spiaggia di ciottoli, i Filtri di Aurisina.


Un articolato sistema di vasche sotterranee e pompe raccoglie l'acqua dolce che dopo diversi filtraggi depurativi (da qui si ipotizza derivi il nome della spiaggia), contribuisce ad approvvigionare la città. 
Il ristorante è aperto da Pasqua fino a ottobre. Nelle domeniche estive è poco praticabile per chi non ami il parcheggio selvaggio sulla Costiera e l'eccesso di bagnanti affamati. Ogni anno giunge però una domenica di pioggia, di cui approfittiamo per mangiare buon pesce a prezzi accettabilissimi, con uno sguardo sul mare in tempesta dalla terrazza che si sporge sul mare.

 Sul Talm

Siamo di nuovo in Friuli Venezia Giulia, per la precisione in Val Pesarina, detta anche Valle del Tempo. Imboccata la statale numero 465 dal tratto di strada che unisce Ovaro a Comeglians, prima di Avausa giriamo a destra, a scoprire l’abitato di Sostasio, il cui nome sembra derivare da “sub statium”, ovvero stazione (romana) situata sotto l’anitca strada che conduceva al Comelico. Da questo paese ben esposto al sole e con un’architettura assolutamente rispettosa dei canoni tradizionali è possibile raggiungere in circa tre ore la cima del Monte Talm, quota 1093 metri, punto di osservazione e contemplazione estatica di un paesaggio a trecentosessanta gradi che abbraccia tutta la Carnia. Per i guidatori meno esperti è consigliabile lasciare l’auto in paese; altrimenti, con gran prudenza e preferibilmente con un mezzo adatto alle pendenze e alle strade sterrate, è possibile proseguire fino al divieto di transito e lasciare l’auto lungo la strada o nello spazio antistante il rifugio (attualmente chiuso). Per chi percorra il tragitto da Sostasio è d’obbligo uno sguardo al minuscolo abitato di Luc, sogno paesaggistico e incubo alla Stephen King: lo spaventapasseri che ghigna alle porte del paese semiabbandonato introduce all’atmosfera orrorifica di un luogo dove certamente abita il babau di queste parti, chiamato “il Boborošo”.
 L’ascesa al Talm è piuttosto faticosa, ma adatta veramente a tutti per ciò che riguarda la praticabilità (solo l’ultimo tratto, a ridosso della cima, richiede un po’ di attenzione, ma anche qua i miei canoni di estrema prudenza appariranno eccessivi ai più!).
Al rientro, è d’obbligo una tappa enogastronomica all’agriturismo Plan da Crosc di Croce, appena sotto Sostasio, dove a un prezzo che senza alcun dubbio vi stupirà positivamente potrete assaggiare il meglio della cucina carnica: gnocchi con (abbondante) burro e ricotta affumicata, cjarsons, polenta, frico, spezzatino, minestre della tradizione. 
Sempre partendo da Sostasio vi consigliamo un altro itinerario: sopra l’abitato di Luc vedrete l’indicazione del sentiero che conduce a Prico. È una camminata molto più “morbida” di quella per il Talm, in un bosco secolare dove non è difficile imbattersi in qualche cerbiatto, se si cammina in silenzio. Raggiunto l’abitato di Prico, potrebbe essere l’ora dell’aperitivo (cioè le 18, rigorosamente, che vuol dire non prima e soprattutto non dopo, nelle nostre regole familiari): vale la pena allora scendere a Prato Carnico, e poco prima del suo campanile pendente (la torre di Pisa della Valle!) raggiungere l’albergo, bar e ristorante Ai sette nani, dove da anni amiamo sederci all’esterno e goderci la vista dei monti antistanti. Le colorite esclamazioni dei locali che giocano a carte sono per fortuna solo parzialmente comprensibili per la parlata stretta del dialetto della Valle…





 La Casa del Diavolo

Percorrendo la strada che risale il canale di Gorto, nel tratto compreso tra Ovaro e Comeglians, da una vita svolto a  sinistra, sulla statale n.465, in direzione di Sostasio. Siamo in Val Pesarina, luogo tanto solare e vitale quanto desolato e freddo, in un continuum legato alla stagione, all’umore, al momento storico, alla condizione socioeconomica che distingue chi (soprattutto in un passato non troppo lontano) ha faticato per sopravvivere a una terra aspra o ha dovuto emigrare oltreconfine e chi ha vissuto epoche di maggior benessere, o ha goduto dei benefici dei “villeggianti” (come ancora oggi qui vengono chiamati i turisti).
Non si può che soffermarsi su un elemento alla volta, nell’esposizione delle numerose mete da esplorare in questo microcosmo denso di opportunità: oggi, gli stavoli di Orias.
Oltrepassati gli abitati di Prato Carnico e Pieria, si prosegue in direzione Osais, svoltando a sinistra e raggiungendo il paesino di Truia, dove i guidatori meno avvezzi a strade strette, pendenti e con curve impegnative lasceranno l’automobile. Premetto, per questo itinerario e quelli che seguiranno, che la mia idea di strada pericolosa si differenzia in modo significativo da quella di Davide, motivo per cui trascorro gran parte del tempo di percorrenza verso le nostre mete montane aggrappata alla maniglia del lato passeggero, urlando come un pappagallo sul trespolo.
Poco sopra l’abitato, a un’altitudine di circa 1000 metri, meraviglia: gli stavoli. Queste tipiche costruzioni di montagna nascono come dimora temporanea adibita al ricovero di animali e al deposito di foraggio e fieno, ma col tempo sono diventati luoghi dove i (fortunati!) proprietari trascorrono la domenica a suon di griglia, polenta e merlot. L’elemento caratteristico degli stavoli di Orias è caratterizzato dal fatto che i fabbricati sono stati costruiti ravvicinati l’uno all’altro (solitamente sono distanziati, ognuno corrispondente a un appezzamento di terreno) e dal fatto che tutti hanno il medesimo orientamento, verso la Valle.
Guardatevi attorno: a est vedrete il monti Arvenis, Tamai e il cubo dello Zoncolan, a ovest la Creta di Mimoias, di fronte le montagne che separano la Val Pesarina dalla conca di Sauris, alle spalle le dolomiti pesarine. Uno degli infiniti paesaggi da lasciar senza fiato in queste zone ancora solo parzialmente investite dal flusso turistico degli amanti degli sport di montagna: è ancora oggi più facile trovarci chi, come noi, conosce la Valle “perché ci viene da quando era bambino”, spinto dal desiderio di rivivere quell’ineffabile magia sperimentata nell’infanzia.
Oggi vi portiamo a fare un sostanzioso spuntino in un locale con una storia importante, direi un condensato delle vicende più significative del XX secolo in queste zone: la Casa del Popolo di Pieria. All’epoca della sua costruzione i clericali la chiamavano con spregio “Casa del Diavolo”, e per un brevissimo periodo si è trasformata in “Casa del Littorio”: questo valzer di nomi ci fa comprendere il valore simbolico di questo luogo, rinato nel 2013 dopo diversi anni di chiusura, sede della Biblioteca Comunale, di un bar con cucina e dotato di camere per il pernottamento.
L’edificio fu costruito fra il 1909 e il 1910 grazie a uno sforzo economico collettivo dell’intera comunità, che mise in campo i propri (pochi) averi e la forza fisica di uomini e donne, con l’idea di ospitare le associazioni della vallata e di essere un luogo di confronto, di svago e di incontro per i lavoratori carnici. La fondazione della Casa del Popolo rappresentò l’apice dello sviluppo del movimento operaio in Carnia, nonché il segno dell’affermarsi della corrente parallela dell’anarchismo, tanto che nel giorno dell’inaugurazione, il 2 febbraio 1913, si tennero due discorsi per certi versi contrapposti, rappresentanti i due movimenti, che affondavano le loro radici comuni nei concetti di unità, autoorganizzazione e cooperativismo già praticate da decenni in queste valli. Ci si può chiedere come mai tanto fermento in questi luoghi così decentrati: fu l’emigrazione, scelta obbligata per molta parte della storia della Carnia, il veicolo per la diffusione di innovazioni politiche e culturali come l’internazionalismo, l’anticlericalismo e l’antimilitarismo. Gli emigranti infatti ritornavano nella Valle stagionalmente, portando nei paesi una possibile risposta a povertà e sfruttamento da parte dei “poteri forti”: l’idea di “organizzarsi da sé”.
Temiamo di aver annoiato chi di voi non è interessato ai rivolti storici, quindi andiamo al sodo: alla Casa del Popolo, gestita attualmente da “Cycletaurus”, rete di accompagnatori cicloturistici del Friuli Venezia Giulia, potrete mangiare salumi, formaggi, polenta, frico, selvaggina, salsiccia ed eccellenti dolci spendendo dai 10 ai 20 euro a persona. Tenete presente che in tutta la Valle il tajut (o taglio di vino) costa un euro o poco più… e che vino!
Terminata la merenda, pensate alla prossima gita, perchè gli itinerari in zona sono infiniti…





 Da Alison 

Con questo post vi introdurremo a uno dei sancta sanctorum delle nostre vacanze estive: il paesino istriano di Premantura, situato sulla punta estrema dell’Istria, con un centro storico miracolosamente scampato allo scempio delle costruzioni turistiche selvagge (che purtroppo ne imbruttiscono la periferia), e il ristorante che ci vede arrivare ogni volta con lacertezza di una doccia di serotonina e dei sapori desiderati nella lunga attesa dell’inverno: il nome ufficiale è “Restaurant Premantura”, ma tutti gli affezionati lo chiamano “Da Alison”, in onore della simpatica e brava proprietaria, che vi accoglierà con un sorriso affettuoso, i lunghi capelli neri raccolti in una coda e l’inconfondibile parlata in italiano degli istriani che vivono in queste zone da generazioni. Per trovare questo luogo a cui siamo particolarmente affezionati basta individuare il campanile del paese: davanti c’è un’edicola, poi un negozio “di strafanicci” (come li chiama Valerio) e quindi, finalmente, il simbolo del pesce, a indicare l’ingresso nel locale e nella storia del paese. Sì, la storia, perché le prime volte che abbiamo soggiornato a Premantura, quasi vent’anni fa, era uno dei tre o quattro locali aperti, in un paese sconosciuto al turismo dei più. Davide ogni (ma proprio ogni) volta che ci andiamo racconta di quando il ristorante era gestito dal papà di Alison, che sedeva al tavolo dei (probabilmente molesti) vespisti a raccontare loro storie di mare.
Personalmente apprezzo particolarmente l’antipasto di prosciutto e formaggio istriani, il risotto ai frutti di mare, il djuvec (un riso con verdure proposto di solito come contorno, ma meritevole,  quando buono come quello di Alison, di essere la portata principale). Valerio a un anno qui reclamava una porzione di “spaghetti alla bolognese” con un ragù fatto in casa (quasi) buono come quello della nonna. Davide apprezza particolarmente la malvasia.
Delle bellezze della Riserva naturale di Kamenjak e dei svariati beach bar che la allietano vorremo parlare in modo dettagliato al più presto. Qui dico solo che è uno dei luoghi più suggestivi in cui si possa incappare in Croazia, senza timore di esagerare: scogliere a picco sul mare, mirti, ginestre e orchidee rare, (mio marito mi suggerisce) svariate specie di uccelli migratori, un lungo e selvaggio percorso accessibile a piedi e in mountain bike.
(…continua…)








 Ocizla e i cervi

Valerio ha ideato un nuovo, diabolico scherzo: scatenare “l’uomo che sa” che c’è in suo padre, e poi deriderlo (in modo benevolo). Sostanzialmente, gli pone una domanda su argomenti di tipo storico – naturalistico, e mentre Davide espone ampiamente e con estrema ricchezza di particolari la sua risposta, Valerio si gira verso di me e ride sotto i baffi che (ancora per poco) non ha, facendomi capire che non ascolterà una sola parola della lunga dissertazione. Così è accaduto anche nel corso dell’escursione nella valle slovena di Beka – Ocizla, luogo famoso per i suoi inghiottitoi. Ascoltando stralci della trattazione di mio marito, che spaziavano dalla storia di Revoltella e del canale di Suez ai fenomeni carsici alla tettonica a placche (lo sapevate che l’Istria è un pezzo di Africa?), ho quindi scoperto che gli inghiottitoi sono delle specie di imbuti che portano l’acqua dei torrenti sotto terra. Ma il percorso che vi vogliamo proporre non si limita a farci ammirare questo fenomeno: la zona è ricca di grotte, cascate, piccoli canyon, boschi di faggi e querce. Uno dei punti di partenza per l’esplorazione di queste meraviglie è il piccolo paese di Ocizla, anticamente conosciuto con il nome di Occusian e all'epoca capoluogo di un vasto comune carsico. Per arrivarci si sconfina a Pesek e si imbocca la statale che porta a San Servolo. Proseguendo per pochi metri oltre il paese, si arriva alla suggestiva chiesetta dedicata a Santa Maria Maddalena; scendendo a sinistra della costruzione sacra troverete un sentiero piuttosto ampio a sua volta in discesa: attenzione a quel punto a trovare sulla sinistra, dopo poche centinaia di metri, il primo dei numerosi cerchi gialli (tutti segnati sugli alberi) che vi indicheranno la giusta direzione nell’intero percorso. In inverno e quando il terreno può essere fangoso e scivoloso consigliamo calzature adatte, e in generale non è luogo da visitare con tacchi e ciabattine. Vi assicuro che le foto non rendono la magia del percorso, perché né grotte né inghiottitoi, ho constatato, sono particolarmente fotogenici.
Terminata la gita avrete fame, naturalmente. In risposta a questa esigenza insopprimibile ci sono due opzioni: una è recarsi a Slope da Pri Filetu, di cui ho già parlato estesamente e su cui ci tengo a darvi un aggiornamento. La dirompente proprietaria Anna, o Maria (ancora non ci siamo tolti il dubbio) ha letteralmente imboccato Davide perché finisse le verdure in tavola, lamentando la fatica di curare l’orto, nel frattempo mi porgeva il pane per intimarmi di fare scarpetta dell’olio di loro produzione, rimasto nel piatto degli antipasti, e decretava che la carne lasciata da Valerio doveva essere consumata dallo stesso a cena. Nonostante tutto, la signora ha ragione: il cibo è così buono che non bisogna lasciarne una briciola sul piatto (altrimenti vedrete…)!
L’altra opzione per il pranzo è la Gostilna Pod Slavnikom, a Podgorje, paesino ai piedi del monte Slavnik (altra gita, altra storia!). Siamo a pochi chilometro dai confini della Slovenia sia con l’Italia (valico di Pesek) sia con la Croazia (confine di Jelovice), e ci affacciamo su una zona che meriterà diversi capitoli di questa lunga storia: la Ciceria. Tornando alla nostra gostilna, in famiglia l’abbiamo sempre chiamata “Ai cervi”, perché all’interno fanno bella mostra di sé, appesi ai muri, diversi palchi di cervi, alcuni giganteschi. Sull’argomento corna, a seconda di chi ci si sedeva davanti, si sono sprecate nel tempo numerose e inevitabili battute. Gnocchi con goulash, fusi (pasta fatta in casa tipica di queste zone), carni per ogni palato… ma soprattutto, per noi, una delle migliori tagliate di manzo si possano gustare in tutto il nordest, accompagnata da patatine fritte vere, che nel nostro lessico familiare significa tagliate a mano e fritte in padella. Spenderete fra i 50 e i 60 euro in tre, comprensivi di vino e bibite, sempre se vi accontenterete di antipasto, o un primo o un secondo (questa indicazione vale in generale per tutte le nostre proposte enogastronomiche e in generale per il controllo del colesterolo…)
Se la vostra automobile non teme una strada sterrata, per tornare in Italia imboccate quella che parte a destra della ferrovia di Podgorje e che vi condurrà a Presnica, risparmiando una decina di chilometri per arrivare a Trieste. Il paesaggio è un quadro dipinto, con alberi secolari, vasti prati, e sulla destra una ferrovia d’altri tempi. Quando piove questa strada dissestata si riempie di pozzanghere dalle dimensioni importanti, che diventano scrosci e risate al grido di Valerio: “Ploooch!”.




 Nella Valle del Tempo 


La pizzeria "In Tomasin" si trova in un punto strategico della Val Pesarina, all'incrocio fra l'abitato di Ovaro, la strada che passando per Comeglians e Rigolato porta a Sappada, e sulla sinistra il ponte che conduce a Sostasio, Prato Carnico, Prico e Pesariis. Delle caratteristiche ed opportunità di ognuno di questi paesi parleremo diffusamente e in modo particolareggiato. Ci piaceva partire da questo incrocio per darci un punto di partenza nella descrizione di luoghi che amiamo molto per i ricordi che ci suscitano, i paesaggi che offrono, e naturalmente la certa soddisfazione del palato. Il locale è una delle poche pizzerie della zona, ed è da anni un'istituzione. Senza timore di esagerare qualche anno fa ho descritto su Tripadvisor la pizza del "Tomasin" come "la migliore del Friuli Venezia Giulia": nel frattempo la gestione e il pizzaiolo sono cambiati, e la pizza non è più esattamente la stessa, ma nonostante questo la qualità è sempre elevata e il luogo piacevole, con uno spazio interno semplice e curato e un'esterno coperto con accesso su un grande prato dotato di scivoli e altalene per i bambini (visibile comodamente seduti al propio tavolo, aspetto non trascurabile quando si hanno figli piccoli!). A proposito di quello spazio esterno, Valerio vi racconterebbe di quella volta che Davide giocando con lui a saltare al volo dalle altalene (aveva già più di cinquant'anni) è atterrato direttamente col didietro sul prato davanti, per poi non riuscire nè a sedersi nè a camminare per giorni (la grappa Nonino che si può gustare dopo la pizza è molto buona...). La pizza alle verdure è eccezionale perchè chiaramente guarnita con prodotti del luogo e di stagione, e se proprio volete star svegli e sudare tutta la notte, ma soddisfatti della mangiata, assaggiate la famigerata "pizza frico", una sfida al gourmet e alla vostra digestione. Di solito evitiamo di ordinare portate da ristorante in una pizzeria, sapendo che la qualità è estremamente a rischio, ma in questo caso si può fare eccezione a questa regola: Valerio ordina sempre degli ottimi gnocchi di zucca, e possiamo testimoniare che anche i cjarsons e le carni sono ottimi.

La cosa che mi stupisce sempre della Pizzeria "In Tomasin" è che il locale è assolutamente identico a com'era quando ero bambina e ci venivo con i miei genitori, quando mangiare una pizza fuori casa era un evento eccezionale per molte famiglie: come per molti altri luoghi della Val Pesarina, l'impressione è che il tempo si sia fermato. Non a caso, si chiama anche Valle del Tempo!

 Nema stressa


Un’amica mi ha detto che questo fine settimana non sa dove andare e attende un nostro consiglio.

 Prendete l’auto e dirigetevi verso la Croazia, lungo l’autostrada E751. Per una passeggiata mattutina potrete optare per Rovigno o Bale (altrimenti detta Valle): noi suggeriremmo Bale, prediligendo un paesino microscopico ma incantevole a una cittadina bellissima, ma troppo affollata d’estate (aspetto da non sottovalutare, ahimè, in tempi di covid). Più avanti descriveremo la profonda attenzione all’ambiente, al rispetto dell’architettura locale e al tessuto sociale che caratterizza le scelte degli amministratori di questo paese, anche nella gestione del campeggio Mon Perin, un tempo luogo selvaggio e aspro per coraggiosi fricchettoni e campeggiatori veri, oggi meta ideale per tutti e confinante con la riserva naturale di Palud (dove per la gioia di Davide c’è abbondanza di uccelli!).

Lungo la statale che unisce Bale a Rovigno, costellata di vigneti e uliveti che spuntano dalla terra rossa dell’Istria, dovrete svoltare su una strada sterrata (consigliamo il navigatore di maps, per maggiore sicurezza di non perdersi) verso l’agriturismo Mofardin e la spiaggia di Cisterna, probabilmente piuttosto frequentata in questo periodo, ma pur sempre fuori da ogni circuito turistico: in bassa stagione di solito non ci siamo che noi e le capre di una fattoria adiacente. La buona notizia riguardo al periodo di alta stagione è che troverete aperto per l’aperitivo il semplice ma rilassante beach bar antistante la spiaggia, che noi di solito vediamo chiuso. Non è una spiaggia qualsiasi, credeteci. E soprattutto tornateci a maggio o a fine settembre, periodo ideale per percorrere in bicicletta la strada sterrata che unisce Bale e Rovigno a questo luogo inimmaginabile. 

Bisogna proprio che ora entriate da Mofardin. Le foto che allegherò al post non renderanno in modo sufficiente l’atmosfera di questo agriturismo, ma la maglietta indossata dai gestori può far comprendere la sensazione di relax oggettivo e assoluto che regna fra i suoi tavoli di pietra e l’infinita serie di oggetti di mare e agricoli destinati all’arredo dei suoi spazi (ogni volta che ci torniamo notiamo un particolare nuovo). Sulle magliette c’è scritto: NEMA STRESSA, che è appunto quello che si prova.

Consigliamo: antipasto di formaggio e prosciutto istriani, pasta con le sardine, frittata, una malvasia a dir poco lisergica. In tre spendiamo una cifra attorno ai 40 euro, ma solo perché Valerio pretende la palacinka (o crepe, per chi non conosce il termine) e noi ancora un po’ di Malvasia, a fine pasto. Avviso: i gestori sono simpatici, ma piuttosto ruvidi, come si addice alla vera gente di mare.

L’agriturismo offre la possibilità di pernottare in stanze che definirei rustiche… ma che risveglio! Ho già deciso che proverò quest’esperienza la notte del mio cinquantesimo compleanno, dopo una festa memorabile, e soprattutto senza stress!

 Non toccate quel piatto!

Lungo la strada provinciale 19 di Grado, di fronte all’Isola delle Cove, vi consigliamo una cena al tramonto al Ristorante l’Approdo, dove vedrete il sole abbassarsi sul mare da una terrazza retta da palafitte in perfetto stile lagunare, con il regalo di una perfetta climatizzazione e di una bardatura importante di zanzariere, a proteggervi dai peggiori nemici dell’estate gradese: caldo umido e zanzare gigantesche. Un antipasto freddo di pesce in due, una generosa porzione di cozze saltate, linguine con mazzancolle e pomodorini, una profumatissima pasta col pesto per Valerio, un soufflè a cioccolato e un dolce alla crema di vaniglia e pistacchio per meno di 80 euro vicino al centro della cittadina! Uno dei motivi che ha convinto mio marito a sperimentarsi in questa cena è stato il parcheggio adiacente al ristorante: come ho già detto, facilmente va in ansia al solo pensiero di cercare un posto per l’auto, motivo per cui il centro di Grado era bandito. Ma la sorpresa, oltre all’eccezionale qualità delle portate, e al prezzo abbordabile per chi non mangi antipasto, primo, secondo, contorno e dessert, è stata la cura dell’estetica del locale, al tempo stesso semplice e raffinato. Il gestore è molto gentile, e tiene così tanto all’etichetta da non permettervi di toccare il piatto per aiutarlo quando lo avvicina a voi (per due volte me l’ha sottratto dalle mani quando mi sono allungata per prenderglielo!): ora, non vorrei invitarvi a sfidarlo in questo gioco, ma l’effetto finale è piuttosto divertente...



 C'è che l'è e la Val Cavanata

“C’è che l'è" è un perfetto gioco di parole, che ci avverte che bisogna accontentarsi di quel che si trova. Ecco quel che c’è, nell’omonimo ristorante a San Canzian d’Isonzo: un argine sul quale passeggiare, una capretta che vi fisserà durante tutta la vostra permanenza, due enormi gelsi a proteggervi dal sole, nessun turista e tanti locali (un ottimo indicatore di qualità), pesce ottimo a un prezzo veramente economico.

Ho trovato questo locale per caso, o meglio per intuito, dopo aver studiato per qualche minuto le opzioni possibili per un pranzo nei dintorni di Grado, sulla via del ritorno verso Trieste dopo un fine settimana al Camping al Bosco, di cui parlerò estesamente in futuro. Si trattava di concludere la breve vacanza senza stress e con soddisfazione del palato, non innervosire Davide nella ricerca di un parcheggio nel centro cittadino, non sperperare i miei averi, rispondere con sufficiente prontezza alla fame incipiente del nostro pullo undicenne: mica poco! Entro in argomento aviatorio per chiarire che mio marito è un esperto di uccelli, interesse sul quale negli anni si sono sprecate battute irripetibili, ma che ci ha portato, fra le altre mete naturalistiche, a scoprire anche la Riserva Naturale della Val Cavanata, a pochi minuti dal ristorante, dove abbiamo fatto una breve passeggiata, con la promessa di tornarci quando nostro figlio avesse accusato meno i crampi di un lungo digiuno di un paio d’ore. Per arrivarci si esce dalla strada provinciale 19 che porta da Grado a Monfalcone, svoltando a destra in corrispondenza dell' l’indicazione stradale. Vi troverete lungo una strada alberata dove già potrete avere la fortuna di osservare qualche esotico pennuto: mio marito lì ha visto un’albanella reale, un avvistamento fortunato, a quanto mi ha riferito! Dopo poche centinaia di metri la nostra vista si è aperta sulla laguna, e abbiamo avvistato i fenicotteri. Valerio ha esclamato, con nostro grande orgoglio: i Pink Floyd! Rassicurata dalla sua buona cultura musicale, scesa dalla macchina ho citato i meno noti Pitura Freska che da queste parti dell’Italia furoreggiavano con il pezzo “Oi ndemo veder i Pink Floyd”… e li abbiamo visti bene, in un contesto molto curato e soprattutto molto tranquillo e per niente frequentato dai “rambo del birdwatching” che spesso popolano la vicina Riserva Naturale della Foce dell’Isonzo Isola della Cona, vestiti in mimetico integrale e con quattro macchine fotografiche grandi come cannoni, e per lo più immobili sulle seggioline per l’osservazione degli animali.

Dopo la nostra (troppo) breve esplorazione di questo luogo meraviglioso siamo tornati sulla strada provinciale 19, per procedere, girare a destra subito dopo il ponte che si affaccia sul canale Isonzato e giungere al C’è che l’è, che dopo una breve ricerca sui siti sembrava rispondere più alle nostre esigenze. A mezzogiorno di domenica era rimasto solo un tavolo non prenotato (ergo: meglio prenotare), ma che tavolo! Ci siamo sistemati sotto il gelso secolare e abbiamo ordinato tre porzioni di cozze “scotadeo”, una pasta con le sarde, una cotoletta milanese, due porzioni di patatine fritte, un litro d’acqua, mezzo litro di vino bianco della casa. In risposta alle rinnovate esigenze igieniche legate al covid – 19 il locale si è organizzato perché i clienti scrivano le loro ordinazioni dietro al foglio che certifica la loro presenza; una volta consegnato, si attende che il numero del tavolo venga chiamato al microfono per la consegna del vassoio con l’ordinazione, con un richiamo irresistibile alla naturale battuta (“Tombola!”), che tuttavia non stona con l’atmosfera semplice, un po’ da sagra di paese, che creano i tavoli di plastica, gli ombrelloni di diversa forma e colore e la capretta che istiga i cani dal suo recinto. Anche il cibo si è rivelato genuino come l’atmosfera: cucina casalinga eccezionale, come il prezzo finale, comprensivo di caffè: 49 euro in tutto.

È stato a quel punto che nostro figlio Valerio mi ha detto che ci azzeccavo sempre coi ristoranti, e che potevo raccontare dove andavamo su internet. Considerando che anche Davide ha parecchio naso e gambe per cercare bei posti dove camminare e mangiare, non c’è sembrata affatto una cattiva idea.

Ultima nota su questa gita: dietro al ristorante c’è un “ricovero per animali in difficoltà”, era chiuso al pubblico, ma dalla stradina che fiancheggia l’argine abbiamo potuto ammirare, un bufalo, delle voliere che ospitavano ogni sorta di pappagalli e un gigantesco struzzo che ci salutava con il suo “Gluck”!

 


Pri Filetu

Se volete arrivare al suggestivo paesino sloveno di Slope e al ristorante “Pri Filetu” da Trieste attraversate il confine di Pesek, e proseguite sulla strada E61 in direzione di Kozina, dove avrete due opzioni di viaggio: girare subito a sinistra in direzione Rodik, e da lì seguire le indicazioni per la nostra meta, o proseguire per Hrpelje e girare a sinistra a Tublje. Io e Davide di solito privilegiamo il primo percorso, che attraversa un fitto bosco di latifoglie, soprattutto in inverno: accostata la macchina in uno slargo sulla destra a circa metà strada si può scendere verso delle radure ideali per giocare con la neve e raggiungibili dal sentiero battuto. In quello spazio bianco incontaminato Valerio ha costruito più d’un pupazzo di neve, mentre noi esploravamo con lo sguardo quella particolare dimensione per gli occhi e per l’anima che un paesaggio innevato può suggerire. Nella stessa zona è naturalmente piacevole passeggiare anche nelle altre stagioni, quando le distese di neve si trasformano in prati sui quali correre. Una volta mi sono persa nel passaggio fra un sentiero e l’altro attraverso i prati: attenzione (mi permetto di suggerire per chi come me non ha il senso dell’orientamento incorporato l’utilizzo dell’applicazione per smartphone “Europe 3D”)!

Risaliamo in auto e arriviamo a Slope, e da “Pri Filetu”, seguendo l’indicazione che ci fa salire a sinistra, su una collinetta, fino al parcheggio del ristorante. Appena scesi dalla macchina ci si rende conto di quanto questo luogo è speciale: davanti allo sguardo si apre una vista con pochi eguali, resa ancora più suggestiva dalla presenza di un tiglio e di un grande recinto dove riposano magnifici cavalli. Nello spazio antistante il ristorante c’è un bel tavolo di legno dove ordinare immediatamente un aperitivo, mentre eventuali figli giocano negli scivoli e altalene del praticello sottostante. Periodicamente le gatte di casa producono gattini un po’ selvatici ma simpatici, anch’essi una buona attrazione per i più piccoli! All’esterno d’estate ci sono altri tavoli, ma frequentando il locale più spesso d’inverno, è là che vogliamo accompagnarvi, dove la vista del paesaggio non verrà interrotta, dato che la sala si affaccia sull’esterno con un’enorme vetrata. Ma rimaniamo dentro: dove troverete la signora Maria (secondo me) o Anna (secondo Davide) o chissà come si chiama veramente… ma al di là del nome la questione importante è che con fermezza vi imporrà un importante antipasto di salumi sloveni e formaggio di capra e un ottimo vino, e si assicurerà che mangiate in abbondanza e a scelta fra gnocchi, goulash, gallina, polenta con porcini e ogni ben di dio. Per farvi capire la sua benevola severità: un giorno ho lasciato nel piatto un avanzo. Con sguardo serio mi ha squadrata, ed esclamato con accento della zona: “ Ma varila come xe magra! Finisci tutto quel che xe in piatto!”. Naturalmente ho obbedito.

L’altro itinerario che vi proponiamo si trova sempre lungo la E61, girando a destra dopo Povzane, in direzione di Skandascina (mi scuso per i parlanti sloveno per l’assenza delle pipette e dei giusti accenti, che la mia tastiera mi rende complessi). Dopo qualche chilometro in macchina lungo una strada boschiva, potrete proseguire a piedi e arrivare prima ad un laghetto e poi in una vallata chiamata Jegno estremamente suggestiva per costruzioni agresti, flora e fauna. Là in seguito agli insegnamenti di mio marito sulle tracce ho individuato le mie prime feci (enormi) di lupo, probabilmente appartenenti a un esemplare del cosiddetto “gruppo Slavnik”. Da questa zona si può accedere (con fatica ma soddisfazione) alla cima del Monte Slavnik (o Taiano), attraverso uno dei tantissimi percorsi che conducono alla sua vetta, di cui vi racconteremo in seguito. Per il momento vi accenniamo al fatto che il rifugio di questa cima promette un altro buon pranzo!


Il progetto

Nel corso degli anni io e mio marito Davide abbiamo trovato a pochi chilometri da Trieste molti luoghi fantastici dove passeggiare, mangiare bene e a prezzi contenuti, bere un buon bicchiere di vino. Vogliamo condividere questo piccolo tesoro con altri che amino il meraviglioso universo composto dal Friuli Venezia Giulia, dall'Istria e dalla Slovenia (con qualche interessante sconfinamento)!
Buona gita... E buon appetito!

Nema stressa...


Preadolescenza, castelli e tesori nascosti.

Portare un preadolescente a visitare antiche vestigia di castelli sotto il sole cocente dell’estate potrà costarvi una sequela significativa...